"Esiste la possibilità di introdurre un rapporto vitale con il sapere? L’insegnamento non dovrebbe essere in grado di spostare, attirare verso il sapere, mettere in movimento l’allievo? Se non si riesce a mobilitare il desiderio e l’amore per il sapere l’insegnamento non sarà mai singolare e individuale, ma collettivo Gli allievi non sono visti solamente come vasi vuoti, legni storti da raddrizzare ma come individui unici e irripetibili con una precisa configurazione di talenti, spesso nascosti o sepolti sotto la “Persona”, il carattere e i loro aspetti più rigidi e spigolosi che sono più l’espressione di quello che Winnicot chiamava il “finto sé” riferendosi all’identificazione con aspetti collettivi.
Cosa significa tirare fuori? Non significa confermare i tratti caratteriali adattativi del nostro allievo, bensì riconoscere e permettere il rispecchiamento ciò che c’è dentro, in profondità: talenti, doni, qualità, capacità e risorse. Da questo punto di vista il malessere e il disagio fino ad arrivare ai sintomi (la nevrosi), sono espressione di un “daimon” non espresso. La ghianda sogna la quercia. Per cui il maestro è colui che va sulle tracce dell’allievo.
Il maestro è colui che partorisce di nuovo, per la seconda volta. E cosa significa partorire? Mettere al mondo, portare alla luce, creare le condizioni affinché una vita spontaneamente prenda la sua forma, la sua configurazione. Formazione a questo livello più alto significa infatti, in senso etimologico, dare forma o meglio facilitare la forma già inscritta nell’allievo, così come educazione ci manda ad “e-ducere” e quindi “tirare fuori”.
Parliamo della maieutica, arte della levatrice o arte della domanda con la quale Pitagora avrebbe spiegato con successo il suo teorema allo schiavo ignorante, che non aveva dentro di sé le informazioni per capirlo, ma gliele ha tirate fuori, glie ha edotte dando forma all’informe. Una formazione che si preoccupa realmente di dare forma, di fare domande piuttosto che dare risposte" Massimo Recalcati, mio grande maestro