Stefania Denicolai

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La scelta di scrivere questa lettera di presentazione con lo stile del flusso di coscienza è stata la naturale conseguenza del modo in cui le mie esperienze passate sono riaffiorate alla memoria.
Avrei potuto dividerle, catalogarle e scomporle ma, secondo me, avrebbero perso di efficacia e spontaneità. Allora mi sono limitata a ordinarle lasciandole in un contesto libero. Sarà perché amo la visione olistica piuttosto che quella seriale, sarà perché penso che la vita non possa essere divisa per capitoli, anche se si tratta di una semplice autobiografia professionale, oppure, più semplicemente, perché così ha preso forma nella mia mente.
Spero anche la lettura risulti soprattutto, ‘leggera’ perché uno dei difetti più diffusi fra noi insegnanti è quello di prenderci troppo sul serio e di aver perso la ‘sana abitudine’ di coniugare le cose importanti con il sorriso.
“Speriamo che questa non sia come la mia classe del Liceo”, con questo pensiero, mano appoggiata alla maniglia della porta, varcai la soglia dell’aula dove iniziai la mia lunga e, tuttora attiva, carriera di insegnante.
Era il primo ottobre 1986. Sono passati tanti anni, ma la voglia di fare questo mestiere è rimasta intatta, nonostante i momenti di crisi che indubbiamente ci sono stati e ci saranno.
Proprio da uno di questi momenti è nata la consapevolezza che i vecchi linguaggi usati con le precedenti generazioni non funzionano più e che c’è bisogno di crearne di nuovi per mettersi in contatto con ragazzi sempre più disorientati, bombardati da una quantità spropositata di stimoli esterni. Penso che la scuola oggi debba darsi, fra i compiti primari, proprio quello di insegnare loro a costruire gli strumenti per discernere questi stimoli. Ma che cosa è cambiato dalla scuola di vent’anni fa? Direi molte cose sia in me sia, come ho appena scritto, negli studenti sempre più in difficoltà nel gestire le loro emozioni e facili prede della tentazione di banalizzare tutto per difendersi dalle loro fragilità. Una cosa, però, è rimasta più o meno la stessa ed è l’idea che ho e avevo del buon docente. Scrivo “più o meno” perché l’esperienza insegna e smussa gli angoli, ma l’idea di fondo, la sostanza, come direbbe Aristotele, è rimasta immutata.
Credo che un insegnante abbia una grossa responsabilità relativamente alla crescita dei ‘suoi’ studenti e che le sue scelte e il modo in cui si propone a loro siano determinanti. A questa responsabilità non dobbiamo, né possiamo, sottrarci.
Convinta di questo, ho sempre cercato di instaurare un clima di serenità in classe, senza però rinunciare al mio ruolo di docente, nella consapevolezza che la comunicazione dei contenuti culturali debba passare anche attraverso un canale emotivo; che ci si debba mettere in gioco insieme a loro, ma nello stesso tempo guidarli nel percorso di crescita; che si debba tener vivo il più possibile il loro interesse, perché altrimenti non si apprende, ma anche far capire che lo studio è fatica e lavoro, senza i quali non si costruisce nulla; che la formazione dell’identità passa anche attraverso i contenuti culturali che vengono proposti; che l’insegnante non è un nemico, ma soltanto un adulto che li aiuta a crescere e che, come tale, deve imporre delle regole.
Anche se non sempre è comodo, dobbiamo assumerci questo ruolo tutto intero perché se siamo i loro insegnanti non possiamo essere loro ‘pari’ e, quindi, non possiamo fare gli ‘amiconi’.
Ho sempre diffidato molto dei genitori e degli insegnanti amici, perché nel periodo della crescita gli adolescenti hanno bisogno di punti di riferimento sicuri che possono essere forniti loro soltanto da adulti che assumano un ruolo chiaro, non ambiguo. Si deve addirittura accettare di essere ‘odiati’ in talune circostanze, perché senza una ‘contrapposizione sana’ con il mondo degli adulti non si cresce.
All’inizio della mia carriera professionale, rivestire questo ruolo è stato il passaggio più difficile perché, nel tentativo di coniugarlo con la mia disponibilità a entrare in contatto emotivo con loro, il rischio di pormi come loro pari era palpabile in quanto gli anni che ci separavano erano relativamente pochi, contando che ho sempre insegnato nel triennio dei licei.
Oggi, ovviamente, il rischio non c’è più, ma più che per merito mio per una questione meramente anagrafica.
Devo dire però che anche allora non me la sono cavata male riuscendo a mantenere separati i ruoli, cercando di costruire un’immagine di insegnante autorevole che non rifiutava di prendere, laddove lo si rendesse necessario, anche decisioni ‘impopolari’.
Un altro aspetto che caratterizza il mio modo di svolgere il ruolo di docente è sempre stata la convinzione che l’insegnamento passi non solo attraverso la comunicazione emotiva dei diversi contenuti culturali, ma anche attraverso quell’autorevolezza di cui ho già scritto. Tale autorevolezza si costruisce con diversi atteggiamenti: la coerenza tra ciò
che si dice e ciò che si fa; il rispetto che dobbiamo pretendere ma anche saper portare ai nostri studenti che sono prima di tutto persone, la nostra disponibilità non soltanto a insegnare ma anche ad apprendere da loro.
Infine, ma non da ultimo, è fondamentale che la trasmissione dei contenuti culturali avvenga in modo tale da suscitare l’interesse di chi ascolta, per cui, quando si presenta l’occasione occorre saperli intercalare con una ‘battuta’, piuttosto che con qualche riferimento all’attualità, nella ferma convinzione che, laddove si può, si debba alleggerire l’atmosfera perché non sta scritto da nessuna parte che tutto ciò che è importante debba essere necessariamente noioso.
Perciò, spesso, mi ritrovo a ‘far rigirare i filosofi nella tomba’ quando, per spiegare qualche concetto particolarmente difficile o noioso, porto esempi poco accademici nella convinzione che sia importante che arrivi loro il messaggio corretto espresso con un linguaggio appropriato, mentre lo strumento attraverso il quale lo si fa passare non necessariamente debba essere ortodosso. Fondamentale è che non si perda di vista l’obiettivo di far passare i concetti irrinunciabili senza banalizzarli.
Se penso al mestiere che ho scelto, lo penso come qualcosa di perennemente in fieri che richiede da parte di chi lo esercita una disponibilità perenne al cambiamento, al reinventarsi anno dopo anno, classe per classe.
Il problema oggi non è solo quello di catturare l’attenzione e l’interesse dei ragazzi ma anche quello di restituire loro una capacità narrativa andata perduta fra social network e telefonini. Insegnando la storia, per esempio, cerco di proporla come ricerca, ma anche come racconto che interpreti diacronicamente e sincronicamente i singoli avvenimenti con l’obiettivo di fornire una narrazione globale degli stessi. Ma se il nostro compito è quello di aiutare gli studenti a costruire strumenti critici attraverso i contenuti culturali che offriamo loro, abbiamo bisogno di utilizzare nuovi linguaggi, senza rinunciare per questo ai contenuti disciplinari che continuano ad essere uno strumento indispensabile per raggiungere l’obiettivo, prestando, però, attenzione a non considerarli mai fine a loro stessi.
Questa, ritengo, sia la grossa sfida che ci troviamo davanti e che ci impegna a costruire un insegnamento in grado di fornire quegli strumenti interpretativi, utili per decodificare un mondo sempre più velocemente e ferocemente in evoluzione.
Aiutarli, cioè, a costruirsi un pensiero critico che, anche dopo essersi dimenticati dei contenuti specifici, possa permettere loro di vivere e operare scelte da cittadini responsabili, inclusivi, accoglienti, aperti alla diversità ed al cambiamento.
Mai come adesso il ruolo dell’insegnante è, secondo me, un ruolo sociale perchè molto spesso dobbiamo coprire vuoti sempre più grandi lasciati da altri, tenendo la barra ferma sull’obiettivo di costruire una cittadinanza attiva, consapevoli che nel far questo non ci inventiamo nulla di nuovo, dato che lo stesso obiettivo se l’era posto già Socrate molti secoli prima di noi.
A proposito di Socrate, condivido pienamente la sua idea di maestro maieutico, cioè di colui che accompagna nella crescita i suoi discenti senza ‘inculcare nessuna verità’ ma semplicemente aiutandoli a costruirsi gli strumenti per diventare adulti responsabili, dotati di pensiero critico e, quindi, necessariamente autonomo.

Stefania Denicolai
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