Il teatro e la sua pratica vanno molto oltre l'esibizione o l'atto performativo. Questo tipo di percorso va inteso in maniera più esistenziale. Non significa che bisogna avere un approccio mentale, tutt'altro: il teatro è qualcosa di estremamente fisico, che coinvolge il corpo in modi "inconsueti" per imparare a conoscerci. Non risolve i problemi della vita, ma insegna a osservarla (e osservarti) in maniera diversa.
Teatro Sacro Popolare è una definizione semplice, forse altisonante, che uso per descrivere la poetica del mio percorso teatrale attoriale, registico e ancora attoriale con diversi maestri e artigiani di questo secolo e di quell'altro.
Teatro Sacro perché rituale, perché momento di dialogo con quanto esiste aldilà dei nostri occhi. Teatro Popolare perché antropologicamente fondato, perché strutturalmente e inevitabilmente radicato nella carne dell'uomo. Non potrebbe d'altronde essere altrimenti.
Il Teatro tenta con ogni mezzo a sua disposizione, dal reale al virtuale, di tenere questo dialogo sin dagli albori della rappresentazione, ma nell’esperienza contemporanea, questa tendenza si accentua e genera nuove pratiche teatrali che abbattono i confini tra attori e artisti, producendo spettacoli di alto rigore formale, e modificando il tessuto drammaturgico del testo.
La ricerca è svolta fra tradizione e sperimentazione e la fisicità del corpo dell’attore in rapporto con la materialità dell’oggetto, permane un argomento di centrale interesse.
Non potrebbe, dopotutto, essere altrimenti. Non sarebbe possibile, se non inutile e irriverente, trascendere da una tradizione (tradizione chiaramente mondiale), dove la comunicazione rituale si è
affinata nel corso dei secoli da diventare poesia.
Pensiamo all'arte del Teatro No, del Teatro Kabuki, del Teatro Katakali, della Tragedia Greca, della Commedia dell'Arte, delle avanguardie europee della prima metà del Novecento: laddove ogni gesto è azione, ogni significato è significante, si cela il Codice, trasmesso e affinato in secoli di preghiere e maledizioni.
La comprensione, la pratica e l'applicazione del Codice, al di là della forma d'arte perseguita, è il tarlo che dovrebbe consumare l'artista.
La mia piccola ricerca drammatica si inserisce in questo già così grande solco, che può solo scomparire o, (magari!), renderlo più profondo.
La riflessione parte dalla dicotomia corpo-artificio: cos'è il movimento naturale del corpo? Perché gli automi sono più veri degli attori? perché accettiamo la finzione come chiave di interpretazione della realtà (o dell'irrealtà)?
Ho cominciato a rispondere a questi quesiti in maniera empirica (e come, altrimenti) dedicandomi al teatro-danza, al movimento biomeccanico e all'acrobatica sino all'incontro un codice (o una parte del Codice!): quello della maschera di cuoio della Commedia dell'Arte.
Non era chiaro inizialmente, e senz'altro non ha smesso di parlarmi dopo dieci anni circa di pratica, ma è stato come una rivelazione: alcuni di quegli interrogativi cominciavano a dipanarsi e dopo averli testati su me stesso, ho iniziato cautamente a testarli sulla scena con brevi esperimenti e affiancamenti, evolvendo un passo alla volta per poi ritornare sempre a studiare nuovamente, in un processo inevitabile di ricerca e sperimentazione.