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Quali sono i concetti chiave della filosofia greca e come influenzano la lingua?

Non di rado si ritiene che gli antichi filosofi greci siano sì dei personaggi importanti, ma per lo più un po' troppo astrusi o un po' troppo astratti: capaci di cadere senza accorgersene dentro un pozzo, come Talete, sbeffeggiato da una sua stessa serva (pochi, però, raccontano dell'altra faccia della medaglia delle leggende che lo interessano: il suo essere fine speculatore anche nel saper guadagnare); oppure, come il Socrate rappresentato da Aristofane nelle Nuvole, di giudicare del mondo da un'altezza che ha piuttosto le sembianze vaporose della fantasia, non la concretezza terrena del pensiero autentico.

Vi potrebbe essere qualcosa di vero in queste leggende, come spesso accade - ma vi è sicuramente qualcosa di triviale e miope, dunque qualcosa di errato, come altrettanto spesso capita in qualsiasi leggenda. Difatti, nei circa mille anni e più di storia della filosofia occidentale in cui viene delimitato per convenzione il periodo della filosofia antica (da Talete appunto, VI secolo a.C, alla chiusura della scuola di Atene con Giustiniano 529 d.C.), questi filosofi greci ci hanno lasciato qualcosa in più delle loro stramberie. Qualcosa che, soprattutto, risuona latente, se si tendono bene le orecchie, nelle parole del nostro linguaggio scientifico e quotidiano, prendendo spunto da alcuni dei concetti fondamentali che hanno animato questa lunga tradizione filosofica. 

Si può partire, allora, da quello che è sicuramente uno dei più importanti fra tali concetti, fondamentale per la tradizione del pensiero occidentale, ossia: il concetto di logos. Il significato di questa parola è molto ampio; logos in greco, infatti, significa tutte queste cose insieme: "parola", "ragione", "linguaggio", "discorso". La razionalità della filosofia greca e dei suoi filosofi (e dunque della filosofia occidentale che ne ha tratto le conseguenze) dipende da questo stretto legame, già instaurato nella loro lingua, fra la razionalità e il parlare; cosa che non accade ad esempio nel latino, dal momento che parola (verbum) e ragione (ratio) non ricadono sotto un unico termine. Con questa parola, dunque, i filosofi greci potevano esprimere numerose idee: la ragione che governa e origina il mondo, come in Eraclito e negli stoici; il discorso con cui avere la meglio dei propri avversari, per i sofisti; la razionalità o il senso di un discorso condotto correttamente, secondo verità, per Platone e Aristotele. Anche noi, anche oggi, sintetizziamo la razionalità del parlare e del discorrere di un argomento tramite una parola che è diretta discendente di quella greca, vale a dire: la parola "logica". Infatti, questo termine descrive la capacità o la tecnica di saper pensare e saper argomentare in modo coerente, e consequenziale, a partire da principi razionali e comprensibili. E della logica, così come della ragione e del linguaggio, ne facciamo oggi e da sempre quasi una nostra esclusiva proprietà; dacché Aristotele disse che "l'uomo è un animale che possiede il logos" (tradotto poi in latino come "animale razionale"): come a dire che nessun altro animale ce l'ha.

La logica ci riporta ad un altro concetto basilare che ha segnato tanto le scienze quanto la lingua: il concetto di metodo, in greco méthodos. Oggi noi intendiamo per metodo, infatti, il procedimento che seguiamo per intraprendere una determinata iniziativa, un'attività: il metodo di studio, ad esempio, è il modo in cui, passo dopo passo, scegliamo di procedere per organizzare e svolgere il nostro studio. E' la filosofia greca che imprime a questa parola il significato non solo di ricerca ma di modo in cui questa ricerca va sviluppata. E, difatti, noi vediamo come i metodi di ricerca della verità nell'ambito della filosofia greca siano già molteplici; perciò abbiamo nell'intera storia del pensiero greco una divisione in "scuole" differenti. Certamente, fra tutti metodi spicca la maieutica socratica, da cui Platone ricava in seguito il suo metodo dialettico, la dialektiké techné ossia l'arte del dialogo, basata sul reciproco domandare e rispondere per scovare l'identità e l'unità dell'idea da conoscere (scartando le opinioni false) all'interno della molteplicità delle sue possibili manifestazioni ed espressioni. E' da qui che la parola "dialettica" - metodo che farà scuola in tutta la storia del pensiero filosofico - è passata a significare nel linguaggio moderno, uno scambio, a volte anche acceso, di battute, opinioni, intenti (come quando si parla di "dialettica politica"). Va detto però che un'ulteriore sviluppo del metodo socratico si ritrova nei cosiddetti filosofi "scettici" (alcuni dei quali provenienti dall'Accademia, fondata in origine proprio da Platone) i quali, ponendo al centro delle loro riflessioni l'idea di skepsis, ossia di costante ricerca, mettevano in questione qualsiasi "verità" posta da chiunque, scoprendone come i presupposti di tali verità fossero derivati da convinzioni o credenze piuttosto che da reali fondamenti. Perciò oggi si dice "scettica" una persona che abbia spesso dei dubbi su qualcosa.

Ma per quanto riguarda Platone, la nozione che più di ogni altra connota il suo pensiero e ha condizionato le nostre lingue è quella di "idea". In Platone ci sono differenti termini che nominano questo elemento imprescindibile del suo pensiero; il più caratteristico, però, è certamente quello di eidos (che ritroveremo fra poco...), che ha il significato originario di "forma visibile". Come a dire che l'idea (parola anch'essa greca, e platonica, derivata dalla medesima radice di eidos, e del verbo "video" latino, dunque: vedere) è la forma originaria e immutabile di ciò che vedo, di ciò che percepisco in senso lato. Quello che accade con Platone è la proiezione della realtà di questa forma originaria che si dà alla vista, in una realtà ulteriore, in un "altro mondo" per così dire rispetto al mondo sensibile; questo altro mondo metaforico, il mondo dell'iperuranio, può essere intuito o raggiunto solamente dall'anima (la psyché), e solamente per mezzo della sua parte più nobile, l'intelletto, la sola che è in grado di pensare. Per abbreviare, ciò che qui si realizza è un distacco dell'eidos dalla sua radice sensibile, il vedere, e un suo spostamento essenziale nello spazio astratto del pensiero. Fondamentalmente, è da qui che ora noi usiamo la parola idea come sinonimo di un'intuizione del pensiero, come modello di qualche cosa che "abbiamo nella testa". Pertanto, lo stesso discorso vale per tutti i termini che oggi sono derivati da questa parola, che rimandano sempre a un modello astratto, intellettuale, a volte illusorio e non immediatamente reale, tangibile, "visibile": come l'aggettivo "ideale", o "gli ideali" e "l'idealismo" di qualcuno, o "le ideologie" di un gruppo politico o culturale.  

Ora, attraverso le idee di Platone, possiamo rivolgere l'attenzione a differenti concetti importanti per la filosofia greca, che hanno segnato le nostre lingue. Uno di questi è il concetto di typos, o di archétypos, ossia di modello o modello originario, nel secondo caso, giacché questi termini sono stati applicati da Platone stesso alle idee, per indicare il fatto che esse costituiscano il modello, l'impronta o "la figura" ideale delle entità del mondo sensibile. Perciò, anche per noi, la parola "tipo" ha questo significato di modello referenziale di ciò di cui stiamo parlando. Tuttavia, c'è un altra nozione della filosofia greca che ha il significato di figura e che influisce, a differenti livelli, sul nostro linguaggio odierno: lo "schema". Schema in greco ha il significato di figura, configurazione di qualcosa, come nel caso degli atomi teorizzati da Democrito e Leucippo, le entità minuscole, indivisibili che costituiscono, congiungendosi o disgregandosi, i tasselli elementari di tutto ciò che esiste; atomi che differiscono fra loro per ordine, posizione e, appunto, per configurazione (schema).  Ma schema significa anche riduzione di qualcosa di complesso e molteplice ad un'unità per mezzo di una figura, di una rappresentazione: come nel caso dei sillogismi classificati per schemata (plurale di schema in greco) da Aristotele; o negli schemata platonici e neoplatonici che, appunto, configurano il rapporto fra le singole idee e le realtà sensibili che partecipano di esse. E' questo senso di semplificazione che risuona ancora oggi quando in ambiti scientifici come la psicologia o le neuroscienze sentiamo parlare di "schemi mentali", di "schemi neurali". Lo stesso si può dire per ambiti meno complessi come ad esempio lo sport, in cui gli schemi servono appunto per semplificare la complessità delle azioni che poi verrano svolte; oppure, semplicemente, per gli schemi che ci facciamo da soli, per semplificarci lo studio di un argomento.

Dopo esser passati per alcune voci platoniche (e non solo) possiamo rivolgere l'attenzione ad un altro filosofo, la cui importanza si nota ancora nelle pieghe della nostra lingua: Aristotele. Egli si distaccò dal suo maestro Platone, proprio perché non concepiva le idee o le forme (eidos) come realtà di un mondo soprasensibile, bensì come entità presenti negli individui reali, che permettessero la loro identificazione e la loro determinazione, accomunando o differenziando ciascuno di loro. Ad esempio, la forma "uomo" accomuna Socrate a Platone, ma differenzia questi due da chi partecipa della forma "gatto". La forma dunque definisce essenzialmente un individuo. All'interno della sua logica, Aristotele stabilisce una gerarchia formale, una gerarchia fra concetti, utile alla definizione delle forme stesse, basata sulla differenza fra genos (stirpe) e eidos, che, attraverso il latino, sono diventati "genere" e "specie". Il genere rappresenta il concetto più ampio, più universale, la specie quello più prossimo e ristretto. Così, se definiamo la forma uomo come "animale terrestre bipede", "animale terrestre" è il genere (prossimo), e bipede la differenza specifica, cioè ciò che fa di uomo una specie, rispetto ad animale terrestre. Detto ciò, i due termini "genere" e "specie" non solo servono ad ordinare e classificare, appunto, le specie animali in campo scientifico, quasi riproducendo la gerarchia aristotelica; ma tutti noi ne facciamo un grosso uso descrittivo e classificatorio, tanto della parola "genere" (ad esempio ai generi musicali) quanto della parola "specie", che utilizziamo anche per esprimere il senso di una somiglianza che accomuna ciò che abbiamo di fronte e ciò che questo ci ricorda.

Avendo parlato dei generi e delle specie, non si può non parlare di un altro concetto centrale nella filosofia greca antica: il concetto di "essere". Questo termine ha ottenuto la sua rilevanza soprattutto a seguito del poema Sulla natura (Perì physeos in greco) di Parmenide, nel quale la Verità fa visita al filosofo di Elea, come in un sogno, e ammonisce i mortali che le cose o sono o non sono, e che solo tramite la via dell'essere si arriva a conoscere, poiché solo l'essere infatti è (estì gar einai). Da questo verbo, einai, "essere" in greco, derivano vari altri termini che divengono, a partire da Platone e da Aristotele, categorie fondamentali per tutta i filosofi successivi e per il pensiero in generale: come ousìa, parola tradotta in latino con substantia, cioè la sostanza dell'oggetto che viene preso in considerazione, vale a dire ciò che sta sottto, che permane sempre stabile nell'oggetto; oppure la parola on, in latino ens, ossia l'ente, cio che è e che esiste attualmente. O infine la locuzione (aristotelica) ti en einai che in latino è tradotta con essentia, dunque l'essenza: ciò che fa sì che qualcosa sia così e non altrimenti, che fa sì che quella cosa sia quel che è. Ebbene, la parola "essenza", tramite il latino, è certamente il lascito più importante che ha tramandato la riflessione greca sull'essere al nostro linguaggio: l'essenza è una parola che comprendiamo al volo, come appunto sinonimo di aspetto centrale, fondamentale, la cosa più importante da considerare intorno a qualsiasi oggetto di cui stiamo discutendo; e altrettanto bene comprendiamo quando ci viene detto di "attenerci solo all'essenziale", ad esempio nello svolgere un compito richiesto o nell'ascoltare l'opinione di qualcuno. A latere: anche gli stessi oli essenziali (o essenze) profumati prendono il loro nome da questo aggettivo, poiché essi sono ciò che rimane dopo particolari processi di distillazione applicati a determinate "sostanze" (guarda un po'!), soprattutto vegetali.

L'essenziale, però, nel nostro linguaggio rimanda anche al suo opposto, ossia a quel che non è essenziale; e pertanto, vi sono altri due termini, come "affezione" e "accidente", che sono stati "pensati" e classificati in un certo modo da parte della filosofia greca, in particolare da Aristotele, che ha influenzato lo sviluppo e l'uso linguistico che ancora oggi se ne fa. La parola accidente filosoficamente traduce quel che Aristotele in greco chiama symbebekòs, che letteralmente significa: ciò che accompagna (la sostanza). L'uso di questo termine dipende dalla distinzione aristotelica fra ciò che pertiene "essenzialmente" alla sostanza individuale, ciò che quindi è proprio di essa, e i termini che le si accompagnano, che le si aggiungono ma non in manera essenziale (ad esempio: ad un individuo umano è essenziale il fatto che il suo corpo sia composto di una materia che chiamiamo carne, ma che sia alto o basso è un tratto non essenziale, un'aggiunta alla sua sostanza, sebbene, nel caso di una persona alta, l'altezza sia una caratteristica che, forse, le apparterrà sempre... a meno che non si ingobbisca invecchiando!). Ora, la parola greca aristotelica viene tradotta in latino con il termine accidens: ossia ciò che capita fortuitamente. E' attraverso questo modo di indicare ciò che non è essenziale come ciò che è fortuito, che derivano poi parole comuni come "accidentale" (dal latino tardo della scolastica medievale). Invece, tutto il gruppo semantico che comprende le parole affezione, affetto, affettivo, prende le mosse dalla traduzione latina (adfectus) di una parola greca, pathos (radice di quell'aera linguistica da cui emergono parole quali: patire, pazienza, passione ecc.) che indica filosoficamente quei moti che colpiscono, impressionano e modificano lo stato di un corpo o di un'anima. Questo a causa del primo, considerato come un'entità passiva che si lascia condizionare dalla propria sensibilità materiale, proprio perché il corpo sarebbe privo dell'intermediazione e del sostegno del logos, della parola/ragione appunto, che è la sola potenza in grado di ordinare la cecità della materia.

Pertanto, chiamando in causa il corpo, vorrei concludere, citando una delle distinzioni concettuali della filosofia greca che ha più pesato sul nostro modo di parlare e sull nostro modo pensare: quella fra anima e corpo. Questa differenziazione si deve, forse, soprattutto a Platone, e contrassegnerà quasi tutto il pensiero greco successivo. Se il corpo (sòma in greco) infatti, come abbiamo visto è una realtà materiale, sensibile, passiva, a-logica (priva di logos), si deve all'anima, la psychè, la capacità di pensare, ragionare e parlare, la capacità di conoscere la verità, e di vivere liberamente secondo questa verità, malgrado la debolezza del corpo di fronte ai propri istinti, desideri e bisogni. In sostanza, questa distinzione fra due sostane differenti ma comunicanti fra loro, come due aspetti di un solo individuo, è la radice del fatto che noi ci consideriamo, anche nel parlare, come un'io che possiede un corpo; che vede il suo corpo come una sua proprietà, che parla del suo corpo come un qualcosa di esteriore a sé stesso, e che parlando di sé parla del suo animo come qualcosa di intimo, di interiore. In questa divisione sta l'idea dell'immaterialità del pensiero, dell'intelletto spesso denominati nel linguaggio come attività o facoltà "astratte"; è inoltre, dovuta a questa astrattezza anche l'idea che spesso si ha della conoscenza come "un'illuminazione" interiore in mezzo all'oscurità opaca della materia (metafora, questa dell'illuminazione interiore ad opera della verità, di matrice platonica e neoplatonica soprattutto). Infine, credo non sia illeggittimo sostenere che la separazione greca dell'anima dal corpo, sia non tanto all'origine bensì causa del rafforzamento della convinzione "grammaticale" di una distinzione fra un soggetto che compie l'azione e un oggetto verso cui l'azione è indirizzata, come ci insegna l'analisi logica.

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