Romanicula, ovvero Pillole di Romanità: Cos'è il Mos Maiorum?

Benvenuti al primissimo post della serie di Romanicula, Pillole di Romanità - ovvero mini-lezioni su mega-concetti della storia e della cultura latina. Con ogni "pillola" analizzeremo una parola o una frase chiave dell'immaginario romano, sia nella grammatica sia nel suo significato culturale.

 Impara la storia

Vi assicuro che è molto meno noioso di quanto sembri: vi permetterà anzi di capire un po' meglio i cervelli dei nostri antenati costruttori di città, e di immergervi nello strano, rigoroso mondo di una lingua morta che ha tuttavia moltissimo in comune con quella in cui sto scrivendo ora. E se non altro, potrete darvi arie di filologo con tutti gli spocchiosi che conoscete.

Mos Maiorum

Oggi partiamo con qualcosa di davvero grosso: l'espressione "mos maiorum", che forse raduna in sè il cuore della civiltà romana più di ogni altra. Buona parte dei grandi scrittori, poeti, filosofi e politici di Roma e dei suoi territori l'hanno utilizzata almeno una volta nei loro lavori, per criticarla o per apprezzarla, per decostruirla o piangerne la scomparsa, ma non riuscendo mai davvero a sfuggire alla sua attrazione gravitazionale. (In questa casa/domus amiamo le metafore, meglio lo sappiate subito.)

Ma andiamo con ordine. Le due parole che compongono questo concetto sono "mos", nominativo singolare di "mos, moris" (abitudine, costume, modo di fare) e "maiorum", genitivo plurale di "maior, maioris" (maggiori, ma anche antenati: pensate all'espressione italiana 'fratello maggiore', per capirci).

Il genitivo è il caso che in latino indica il complemento di specificazione ('di qualcuno'): nel caso non lo sappiate, il latino è infatti una lingua flessiva, cioè per indicare la funzione di una parola nella frase non si affida alla sua posizione o alle preposizioni poste prima di essa, ma a delle desinenze.

Le desinenze sono 'pezzetti' che si aggiungono alla fine della parola, e che indicano immediatamente se quest'ultima è un soggetto, un complemento oggetto, un complemento di specificazione o di termine.

(Vedete ora perchè le maestre delle elementari insistevano tanto e rompevano l'anima sulla grammatica italiana? Tranquilli, nessuno ci pensa finchè non sbatte il naso contro il latino...)

In ogni caso, la traduzione di "mos maiorum" (nominativo + genitivo) è all'incirca, "i costumi degli antenati". Fin qui, tutto normale: chi di noi non ha mai sentito lamentele sul fatto che una volta la gente si comportava diversamente, che non c'è più religione e una volta i giovani erano meglio e non ci sono più le mezze stagioni? Il piangere un passato idealizzato e la gente che ci viveva non è assolutamente un'esclusiva moderna.

Anzi, si può dire che i Romani avessero davvero elevato la nostalgia del buoncostume a una forma d'arte: a un vero fondamento della loro identità. I costumi (inteso come abitudini, non come abiti fuorimoda) degli antenati erano una sorta di ossessione nazionale, spesso adoperata ad arte da propaganda politica, trattati morali, e poeti desiderosi di mostrare quanto moderni e anticonformisti fossero rispetto ai bacchettoni di una volta.

Un po' troppo nebuloso? Vediamo un paio di esempio, giuro che saranno gustosi.

Esempio

Un bacchettone di prima categ- err, cioè, uno dei padri della trattatistica romana e della sua letteratura è Catone, detto (non per caso) il Censore. Catone era un senatore della Repubblica romana (quindi prima di Cesare e Augusto) vissuto nell'epoca delle Guerre Puniche con cui Roma strappò il dominio del Mediterraneo a Cartagine.

Di questo periodo ricorderete sicuramente l'orrore di ricordare tutte le date e l'immagine di Annibale che supera le Alpi a dorso di elefante. Catone fu un feroce nemico di Cartagine, e fu tra coloro che fecero campagnia per non solo sconfiggere i Cartaginesi - o Punici, da una bastardizzazione romana del nome dei Fenici - ma per distruggere la loro capitale.

Dimostrò la sua posizione con una splendida, teatralissima mossa che coinvolse il senato, una cassa di fichi, e ottimi tempi teatrali. Ma questa è un'altra storia. Ciò che oggi ci interessa di Catone è l'immagine dei tempi antichi (più antichi di lui) che emerge dalle sua opera più importanti.

Una è il "Liber de agri cultura", "Libro sull'agricoltura", vero e proprio manuale di gestione aziendale scritto per il figlio. Tralasciamo quanto debba essere stato traumatico essere il figlio di Catone, visto il carattere.

L'opera è comunque affascinante: spiega infatti nel dettaglio come gestire le terre e le produzioni agroalimentari di una grande tenuta, degna di un senatore - con consigli su sementi, produzione di formaggi, artigianato e, ah, sì, gestione efficace degli schiavi (a cui, se vecchi o malati, consiglia di non dare molto da mangiare, per non sprecare risorse, sapete).

La seconda sono le "Origines", un'opera storiografica che ripercorre le vicende di Roma dalla sua fondazione alle guerre puniche. In entrambi questi lavori emerge un vero e proprio culto del "mos maiorum", inteso come modo di vivere dei primi, veri, virili, rudi romani: donne pudiche e lavoratrici, sani passatempi maschi divisi tra il foro politico e la cura dei campi, zero influenze da quell'Oriente molle e troppo sofisticato che stava invece prendendo minacciosamente piede ai tempi di Catone.

(Non per niente Scipione, distruttore di Cartagine e di Annibale, era uomo fascinoso e colto, amante delle antichità greche e dei piaceri di un vero hipster premoderno.)

Non è un caso che le "Origines" fossero una delle opere più lodate da un altro grande appassionato di "mos maiorum", ovvero Cicerone, forse l'oratore più famoso dell'antichità e della storia occidentale.

Cicerone, uomo ondivago, complesso e interessante nella sua effettiva carriera politica, si dimostrava invece nei suoi scritti pervicacemente abbarbicato all'ideale dei "tempi andati": da mettere in contrasto, ovviamente, con quelli moderni, debosciati, squallidi, troppo ricchi e quindi troppo poveri di virtù e valore.

Suona familiare, soprattutto in discorsi di politici e opinionisti? Lo è. Cicerone avrebbe adorato scrivere pistolotti su Facebook.

Un altro grande Romano che prestò le sue (bellissime) parole alla celebrazione del Mos Maiorum fu Virgilio, l'autore del poema epico Eneide. La cronaca della vita sfortunata di Enea, principe troiano figlio di Venere e futuro progenitore dei Romani, è solitamente il ragazzino sfigato nella squadra dei poemi epici, ma è anche un'opera che consiglio di rileggere, soprattutto a tutti i +18. Le descrizioni di magie ed emozioni di Virgilio sono tra le più splendide che siano mai state scritte, vibranti di umanità, dolore, commozione.

Sono anche, allo stesso identito tempo, pura propaganda della mentalità di Augusto, primo imperatore romano: famiglia, patria, "virtus" (un mix di virtù morale e valore militare, ne riparleremo) ovvero del "mos maiorum".

Gli antichi ispirano, e la loro devozione alla casa, il popolo e gli dei deve essere la luce che conduce ad una nuova era di prosperità e rettitudine: ma quando qualcuno lo dice così bene, anche i discorsi del 'si stava meglio quando si stava peggio' si possono perdonare.

A questo proposito, non posso non lasciarvi con una citazione della mia amata Eneide, e in particolare dal sesto libro - quello in cui Enea discende negli Inferi, e viene istruito dal padre Anchise sulla gloriosa linea di re e eroi che sorgerà dal suo sangue. Così concludiamo la nostra prima pillola: a voi, gentili lettori, ave atque vale (Salute e addio):

Tu regere imperio populos, Romane, memento / (hae tibi erunt artes) pacique imponere morem / parcere subiectis et debellare superbos (Aen. VI, 851-53)

Tu ricorda di dominere sui popoli, o Romano, (queste saranno le tue arti) d'imporre la civiltà con la pace/ risparmiare i vinti e debellare i superbi.

 

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Cecilia
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