Cos'è il diritto di enfiteusi? Tra storia e diritto

Il diritto di enfiteusi, nelle lezioni di diritto, appartiene alla famiglia dei così detti "diritti reali di godimento su cosa altrui",  ovvero quella categoria di diritti che raccoglie le singole manifestazioni di facoltà proprie del diritto reale per eccellenza: la proprietà.

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Chi è titolare di un diritto reale di godimento su cosa altrui può normalmente, usare quella cosa, per fini personali ovvero professionali, può raccoglierne i frutti e talvolta, può altresì costiture su quelle cose stesse, un altro diritto di godimento (come nel caso dell'erroneamente noto, subaffitto, in cui il conduttore di un immobile, provvedere a sottoscrivere un altro subcontratto di locazione, sull'immobile medesimo, pur non essendo il proprietario dello stesso), ma non può esercitare poteri di disposizione della cosa.

Ma cosa si intere per poteri di "disposizione" della cosa? 

Il concetto di "disposizione" attiene all'utilizzo di un bene in modo tipicamente ricondubicile al diritto di proprietà, l'esempio per eccellenza è quello della sua alienazione e quindi della vendita, ma vi sono altre ipotesi che, per sinteticità, eviterermo di trattare.

Il diritto di enfiteusi è quindi tra i diritti reali di godimento più "pieno" che ci sia poichè, a ben vedere, l'enfiteuta si appalesa quale proprietario del fondo agli occhi dei terzi soggetti, ove invece si concretizza come un mero possessore nei confronti solamente di chi è l'effettivo proprietario del bene. 

A differenza del semplice usufruttuario dunque, l’enfiteuta può mutuare la destinazione del fondo, può modificare le coltivazioni ovvero ancora, può edificarvi costruzioni. Talchè, dato il largo potere attribuito all’enfiteuta, la dottrina nel tempo si è spinta a qualificare quest’ultimo come il “vero proprietario” del fondo, circoscrivendo al concedente, il "solo" diritto reale al pagamento del canone. Inoltre, l’enfiteuta può disporre liberamente del proprio diritto potendolo anche alienare ovvero trasmettere mediante testamento ovvero ancora, perderlo per usucapione. Questa tesi è fondata dal combinato disposto di cui agli artt.959 co.1 c.c. secondo cui "L'enfiteuta ha gli stessi diritti che avrebbe il proprietario sui frutti del fondo, sul tesoro e relativamente alle utilizzazioni del sottosuolo in conformità delle disposizioni delle leggi speciali" e l'art.965 secondo cui "L'enfiteuta può disporre del proprio diritto, sia per atto tra vivi, sia per atto di ultima volontà".

Tale premessa ci è utile per inquadrare in modo corretto l'istituto in questione. 

Storicamente parlando tale istituto trae le sue origini dal Diritto Romano e, più specificamente, da una forma di divisione dell'ager publicus - cioè delle terre della repubblica che, costituito perlopiù da terre sottratte alle popolazioni italiche assoggettate dai romani veniva in parte distribuito tra i coloni militari - a cui erano destinate le terre già coltivate. Suddette terre, in particolare, assumevano la denominazione di ager privatus vectigalisque, un'espressione che etimologicamente esprimeva le peculiarità di una proprietà sostanzialmente privata, ma formalmente pubblica [e quindi di altri] che si caratterizzava per la sua precarietà - la Repubblica poteva revocare in ogni momento la concessione - e la sussistenza di un obbligo di pagamento, di un vero e proprio canone, quantificato in relazione al "reddito prodotto" nell'anno di "locazione").

Tale istituto è "sopravvissuto" nei secoli ed è tutt'oggi disciplinato nel nostro codice civile del 1942. La ratio legis di questo rapporto risiede, essenzialmente, nella valorizzazione delle terre al fine di evitare che queste rimangano incolte e periscano alle intemperie e all'abbandono per cui, in poche parole: chi è proprietario di un terreno coltivabile, lo pone in locazione ad altrui soggetto, affinchè questo si impegni a curarlo e a renderlo produttivo senza abbandonarlo o farlo perire, permettendogli quindi di raccoglierne i frutti derivanti dall'esercizio un'attività priva ovvero d'impresa, in cambio del pagamento di un cannone, mensile ovvero annuo.

Tale istituto tuttavia, è totalmente privo di una definizione normativa, cosa purtroppo, molto comune nel nostro codice. Ad ogni modo, anche all'oscuro di una definizione normativa unitaria, vi sono degli elementi che giuridicamente ci permettono di determinare in modo netto, questo tipo di condizione.

In primis, v'è da precisare che la disciplina specifica dell'enfiteusi è dettata dagli articoli che intercorrono tra il 957 ed il 977 c.c. ma che, la disciplina generale, è comunque dettata dalle norme precedenti in materia di diritti reali di godimento su cosa altrui, in materia di comunione ex artt.1100 e ss. c.c. nonchè dalla disciplina relativa alla responsabilità contrattuale ex artt.1218 e ss. c.c., trattandosi questi, di un diritto tipicamente costituito mediante il ricorso ad un contratto, che segue lo schema del contratto di locazione - diverso dal contratto di affitto.

V'è da dire che il legislatore del 1942 ha posto al centro dell'attenzione la volontà dei privati ma, ha altresì posto dei limiti intrinseci ad essa, prevendo alcune forme di eteroregolamentazione quì e là (di questo fenomeno ne abbiamo parlato in https://www.letuelezioni.it/blog/riforma-costituzionale-titolo-2001?preview=1 ) talchè, in ogni caso, non possono essere contrarie alle disposizioni dell'art. 151 co.2, 958 co.2, 962, 965, 968 e 971, che si riferiscono rispettivamente al termine durata delle enfiteusi, alla ripartizione degli obblighi nel caso in cui il fondo sia diviso e goduto separatamente da più enfiteuti o eredi, alla revisione del canone, alla disponibilità del diritto enfiteutico, all’ inammissibilità della sub-enfiteusi, all'esercizio del diritto di affrancazione (e cioè il diritto, per l'enfiteuta, di acquistare definitivamente il bene oggetto di enfiteusi).

Sulla durata dell'enfiteusi, l'art. 958 c.c. stabilisce chiaramente che essa possa essere perpetura ovvero temporanea, purchè, in quest'ultimo caso non sia di durata inferiore a 20 anni

Il contratto ovvero l'atto in funzione del quale si costituisce l'enfiteusi deve essere trascritto ai sensi dell'art.2645 c.c. in quanto di diritto reale su cosa altrui, la trascrizione dell'atto ovvero del contratto non costituisce tuttavia un elemento costitutivo della fattispecie che pertanto si perfeziona a prescindere dall'adempimento di questo onere pubblicitario tuttavia, come per tutti i diritti reali che corrispondono a tale meccanismo, la mancata trascrizione potrebbe implicare conseguenze negative contro l'enfiteuta, il quale potrebbe vedersi "spogliato" coattivamente del suo diritto reale di godimento da azioni giudiziali compiuti da terzi avverso il proprietario del fondo in enfiteusi nei casi ad esempio, di posizioni debitorie che riguardino quest'ultimo.   

All'enfiteuta spettano, in linea di massima, gli stessi diritti nonchè gravano su di egli, gli stessi doveri, del conduttore dell'immobile in locazione. Egli è tenuto alla cura ordinaria del bene, con il quid di dover curare il fondo e renderlo produttivo; egli ha diritto di modificare la destinazione del fondo nonchè di compiere migliorie e modifiche e, quando queste siano permanenenti, ha diritto alla riduzione del canone in misura proporizonale al valore delle stesse; dall'altra parte, egli è tenuto al pagamento del canone, a non disporre del fondo e in particolare, non può costituire una sub-enfiteusi sul fondo medesimo ma, al limite, può costituirvi un usufrutto a favore di terzi.  

Per finire, un accenno ad una questione attualmente discussa.

In particolare, non è chiara la compatibilità dell'enfiteusi all'istituto dell'usucapione, e quindi della possibilità per l'enfiteutà di maturare il termine vent'ennale per acquistare di diritto e a titolo originario il fondo in enfiteusi, spogliando di conseguenza, il proprietario della titolarità del fondo stesso.

Sul punto, la risposta prevalente parrebbe essere positiva e ciò, non solo per l'animus preteso dalla dottrina per la maturazione dell'usucapione ma perchè, tale eventualità parrebbe essere altresì contemplata dall'art.969 c.c., il quale riporta che "Il concedente può richiedere la ricognizione del proprio diritto da chi si trova nel possesso del fondo enfiteutico, un anno prima del compimento del ventennio". L'atto di ricognizione contemplato nella norma menzionata, altro non è che una manifestazione di volontà del proprietario idonea ad interrompere il termine di usucapione in favore dell'enfiteuta, che non può quindi acquistare (a titolo originario), almeno per i successivi vent'anni, la titolarità di quel fondo. 

Alla prossima!

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Gabriele
Sono Gabriele e sono un Avvocato di 26 anni con esperienza pluriennale in diritto Penale e processuale penale, in diritto civile e amministrativo, sono dedito allo studio ed al lavoro e pertanto, ho deciso di mettere a disposizione, su questa piattaforma, l'esperienza maturata in aiuto degli studen...Contattare
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